L'abolizionismo è un movimento politico per l'abolizione del commercio degli schiavi e la soppressione della schiavitù. Nasce e si sviluppa in Europa e in America tra la fine del XVIII e il XIX secolo, come movimento e istanza morale, basato su considerazioni umanitarie - già in uso presso gli antichi Ebrei, i quali usavano riscattarsi reciprocamente per conservare lo status di esseri umani e la propria libertà - considerazioni emerse alquanto successivamente anche presso i "gentili" nella cultura illuministica o cristiana.[1][2]
Benché la tratta e la schiavitù fossero diffuse anche nel Mondo arabo e in altre parti dell'Africa e dell'Asia, solo in Occidente emersero istanze sufficientemente incisive da portare alla loro abolizione.[3][4] «Furono poi gli sviluppi e gli effetti della rivoluzione industriale sul mercato capitalistico mondiale a fare della schiavitù un istituto superato e controproducente. L'economia internazionale non aveva più bisogno di masse di schiavi impegnate nelle piantagioni, ma di lavoratori salariati che producessero ricchezza e consumassero merci, di nuovi mercati per lo smercio della produzione industriale e l'investimento di capitali.»[5]. «La schiavitù era ormai antieconomica, una pietra di inciampo: doveva venire abolita»[6] Gli abolizionisti concentrarono i propri sforzi dapprima sull'abolizione della tratta degli schiavi africani verso le Americhe, quindi sull'abolizione della schiavitù nelle colonie o ex colonie europee e infine sul contrasto alla tratta araba e alla schiavitù in Africa e in Asia.[7]
Il termine viene genericamente usato anche in riferimento a quelle correnti di pensiero o movimenti politici e sociali che si battono per l'abolizione di leggi, costumi o consuetudini ritenute non più adeguate ai tempi e ingiuste. In particolare si parla di abolizionismo anche nel caso del movimento che negli anni trenta negli Stati Uniti sosteneva la necessità di porre fine a quelle leggi che proibivano l'uso di bevande alcoliche (proibizionismo).