Il buddismo cinese è il frutto dell'intensa attività missionaria di importanti rappresentanti del buddismo dei Nikāya e del buddismo Mahāyāna provenienti dall'India e, soprattutto, dall'Asia Centrale in Cina e dei contributi di maestri locali, che continueranno questa tradizione o ne daranno nuove e cruciali interpretazioni. Apporti rilevanti raggiunsero la Cina anche per via meridionale, fino al formarsi una rete culturale estremamente importante nella storia dell'Asia e delle civiltà influenzate dalla cultura cinese, come il Giappone, la Corea e il Vietnam e alcuni regni sinizzati dell'Asia continentale.
Documenti storici influenzati da leggende posteriori ma sostanzialmente attendibili parlano di una prima introduzione del buddismo in Cina nell'anno 64.[1] L'apice culturale del buddismo cinese sarà sotto la dinastia Tang, mentre in epoche posteriori si assisterà ad una certa decadenza dovuta alla perdita del favore imperiale, all'interruzione dei contatti diretti con l'India (dove il buddismo si estinse), e ad un rinato interesse per la filosofia e le religioni autoctone (confucianesimo, daoismo). Le scuole buddiste più importanti dell'epoca Tang sono la Tiāntái, la Huāyán e la Zhēnyán. Di poco posteriore ed in seguito molto influente, si deve ricordare la scuola Chán. Meno influente nella storia del buddismo cinese ma importante per i favori che riceverà dalla corte fino all'ultima dinastia sarà il Lamaismo di origine tibetana. Alcune di queste scuole sopravvivono in paesi di antica influenza cinese, soprattutto in Giappone.
«La prima precisa menzione del Buddha figura in un editto del 65, riguardante un principe imperiale, Ying di Chou, il quale manteneva presso la sua corte di Pengcheng (un importante centro commerciale della Cina orientale dove gli stranieri dovevano essere numerosi) una comunità di monaci (sicuramente stranieri) e di laii indicati con la loro denominazione tecnica indiana; e il testo precisa che il principe "sacrificava al Buddha"»