Il pensiero di Arthur Schopenhauer, caratterizzato dal pessimismo, anticipa motivi della più ampia filosofia della vita originatasi nel primo romanticismo tedesco in polemica con il positivismo e con la corrente dell'idealismo "accademico" trionfante del XIX secolo di Fichte, Schelling ed Hegel, "i tre ciarlatani" come li definisce il filosofo tedesco,[1] ai quali contrappone un diverso idealismo, a cui dichiarava espressamente di appartenere come filosofo.[2]
«La vera filosofia deve in ogni caso essere idealista: anzi deve esserlo, se vuole semplicemente essere onesta. Perché niente è più certo, che nessuno può mai uscire da se stesso, per identificarsi immediatamente con le cose distinte da lui: bensì tutto ciò che egli conosce con sicurezza, cioè immediatamente, si trova dentro la sua coscienza. [...] Solo la coscienza è data immediatamente, perciò il fondamento della filosofia è limitato ai fatti della coscienza: ossia essa è essenzialmente idealistica.»
La sua filosofia parte dal kantismo (ma giunge a respingere l'idealismo assoluto di Kant ereditato del pensiero di Hegel), da alcuni elementi dell'illuminismo, dalla filosofia di Platone e dal romanticismo, fondendoli con la suggestione esercitata dalle dottrine orientali, specialmente quella buddhista e induista.[4] La filosofia di Schopenhauer è molto articolata e complessa ed espressa già in buona parte nella sua opera giovanile, Il mondo come volontà e rappresentazione, che contiene già gran parte del suo pensiero, poi riedita con aggiunte. Egli sostiene che il mondo è fondamentalmente ciò che ciascuna persona vede (una rappresentazione "relativa") tramite la sua volontà, nella quale consiste il principio assoluto della realtà, nascosto alla ragione.[5] La sua analisi pessimistica lo porta alla conclusione che i desideri emotivi, fisici e sessuali, attuati sotto la spinta onnipervasiva della volontà, che presto perdono ogni piacere dopo essere stati assecondati, e infine divengono insufficienti per una piena felicità, non potranno mai essere pienamente soddisfatti e quindi andrebbero limitati, se si vuole vivere sereni. La condizione umana è completamente insoddisfacente, in ultima analisi, e quindi estremamente infelice. Di conseguenza, egli ritiene che uno stile di vita che neghi i desideri, simile agli insegnamenti ascetici dei Vedānta e delle Upanishad dell'induismo (si fa notare all'autore che i Vedānta e le Upaniṣad sono la stessa cosa), del Buddhismo delle origini, e dei Padri della Chiesa del primo Cristianesimo, nonché una morale della compassione, è quindi l'unico vero modo, anche se difficile per lo stesso filosofo, per raggiungere la liberazione definitiva, in questa vita o, se esistenti, nelle successive. Sull'esistenza di Dio, Schopenhauer è invece sostanzialmente non-teista, almeno per quanto riguarda la concezione occidentale moderna di una divinità personale. Egli non nutre né considerazione né fiducia alcuna nella massa degli esseri umani, fatto che lo conduce alla misantropia.[6]