De reditu suo

(LA)

«[Roma] sospes nemo potest immemor esse tui [...] | Fecisti patriam diversis gentibus unam; | profuit iniustis te dominante capi; | dumque offers victis proprii consortia iuris, | Urbem fecisti, quod prius orbis erat.»

(IT)

«O Roma, nessuno, finché vive, potrà dimenticarti... Hai riunito popoli diversi in una sola patria, la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi. Offrendo ai vinti il retaggio della tua civiltà, di tutto il mondo diviso hai fatto un'unica città.»

De reditu suo
Titolo originaleDe reditu suo
Altri titoliItinerarium, Iter Gallicum
Sacco di Roma ad opera dei Visigoti in un quadro di JN Sylvestre del 1890
AutoreClaudio Rutilio Namaziano
1ª ed. originaleprima metà del V secolo, dopo il 415
Editio princepsBologna, Girolamo Benedetti, 1520
Generepoema
Sottogenereodeporico
Lingua originalelatino

Il De reditu suo è un poema scritto da Claudio Rutilio Namaziano sulla decadenza dell'impero romano d'occidente nel V secolo.

De reditu suo significa letteralmente "Sul proprio ritorno": Namaziano stava infatti facendo ritorno da Roma alla sua terra d'origine, la Gallia. Una navigazione nella stagione più inclemente, dalla foce del Tevere alla Gallia devastata dalle scorrerie dei Visigoti, in un anno imprecisato, probabilmente tra il 415 o il 417 d.C. Durante il viaggio egli, appartenente all'aristocrazia conservatrice e pagana, descrive un impero in decadenza, influenzato dalle numerose popolazioni barbare ormai infiltratesi in esso, narrandone le passate e ormai perdute bellezze. Il ritorno del patrizio in Gallia è un viaggio senza ritorno: Roma, immaginata eterna, con le vestigia di un passato glorioso, ora naufragato e spettrale, si allontana per sempre. In versi sorvegliati e stilisticamente inattuali già alla loro apparizione, Namaziano si scaglia contro un presente ostile e minaccioso, un mondo nuovo incomprensibile al suo autore.[1]


De reditu suo

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